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Grand Budapest Hotel

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Dunque, la prima grande verità di Grand Budapest Hotel è la negazione di una verità universalmente riconosciuta, ossia che un narratore abbia un’immaginazione costantemente attiva che gli consente di partorire storie in continuazione. Falso: “Quando le persone scoprono che sei uno scrittore sono loro a portarti i personaggi e gli eventi“.

Qualche minuto dopo il pubblico viene proiettato nell’immaginaria Repubblica di Zubrowka. Già, perché quel che conta al cinema è “Non rimanere mai bloccati in un posto solo“, ed è la seconda grande verità del film, mutuata da Moonrise Kingdom – Una fuga d’amore, precedente lungometraggio di Wes Anderson.

In un susseguirsi di immagini che ricordano modellini retrò – quelli dell’hotel, della pista da sci e della funicolare – e di colori prende forma e azione l’opera che è valsa l’Orso d’Argento al regista texano. Viene impiegata l’intera tavolozza: il giallo è il colore dominante, accanto alle sfumature del rosa e del viola della facciata dell’Hotel, delle divise e dei dolci, senza disdegnare incursioni nel bianco e nel nero, che rappresentano un tempo lontano.

Ebbene, questa è la terza grande verità di Grand Budapest Hotel: il gusto della rappresentazione deve fare parte dell’intreccio, anzi è proprio il gusto che rende interessanti le storie e trasforma ogni cambio di scena in chicche di cinema. Ambientazioni, interni ed esterni sono un delirio di input esplosivi e di elementi visivi raffinati ed altamente complessi, prime su tutte la perfetta simmetria delle scene e i motivi decorativi. Perché – Wes Anderson insegna – sono i dettagli a fare la differenza.

Passiamo ora alla storia. Il concierge Monsieur Gustave è noto per conoscere e custodire i più grandi segreti degli ospiti, uomini e soprattutto donne bionde, attempate e ricche, del Grand Budapest Hotel. Accusato di aver ucciso una delle sue clienti, che gli ha lasciato in eredità il prezioso dipinto rinascimentale Ragazzo con mela, Gustave viene sbattuto in una galera da fumetto. Ad aiutarlo, nella sua rocambolesca fuga, c’è il suo Lobby Boy: insieme dimostrano la sua estraneità ai fatti e impediscono ai villain di avere la meglio.

Trama troppo semplicistica e già sentita? Per niente, se è Anderson a narrare, e qui lo fa meglio che nei suoi precedenti sette film: realizza storie perfettamente incastrate l’una nell’altra come una matrioska. Accanto a Gustave, intepretato da un elegante e femmineo Ralph Fiennes, il Lobby Boy che ha il volto di Tony Revolori, esordiente che non ha nulla da invidiare ai suoi colleghi da Oscar, e ovviamente Ragazzo con mela, ci sono mille altre storie e altrettanti personaggi, i fedelissimi di Wes Anderson che pur di recitare per lui si accontentano di qualche secondo in scena.

Basti pensare alla Madame D. dell’invecchiata Tilda Swinton, la dolce e fiera Agatha di Saoirse Ronan, il cattivissimo con anelli a forma di teschio Jopling di Willem Dafoe, il folle e rissoso Dmitri di Adrien Brody, il pasticcione Serge X. di Mathieu Amalric, il galeotto buono di Harvey Keitel, l’ottimo capitano di una pessima squadra di polizia Edward Norton, e il baffone concierge Ivan di Bill Murray. E ne mancano molti altri.

In questo gioco ad incastro tra realtà e finzione, bisogna capire dove vuole andare a parare Anderson. E non è così semplice, perché il regista non lascia molto tempo – e scampo – allo spettatore che ha a che fare con una repubblica fittizia che ha il nome reale di una vodka prodotta in Polonia, con un quadro attribuito un artista mai esistito, Johannes Van Hoytl, realizzato ad hoc per il film, con un magico mondo di cartapesta che incontra la follia della Storia nazista degli anni Trenta, con dialoghi che sono anche citazioni letterarie e si rifanno molto liberamente al libro di Stefan Zweig da cui è tratta l’opera filmica.

La luce, in questo caos, si vede in quella che è la quarta grande verità di Grand Budapest Hotel: ogni storia – che sia quella reale, quella letta nel romanzo preferito o quella raccontata da uno scrittore – è strettamente connessa alle altre. Non esiste, quindi, un confine tra il mondo dei sogni che alimentiamo di colori sgargianti e avventure estreme e quello, decisamente più difficile, in cui dobbiamo rispettare i segnali stradali e attribuire il colore nero alle formiche, tanto per fare un esempio.

Il regista di Houston rispetto ai suoi precedenti film compie due passi avanti, e così giungiamo alla quinta verità di Grand Budapest Hotel: il proprio lavoro è prima di tutto un percorso di formazione ed è bene ripetersi, se si ha uno stile perfettamente riconoscibile come nel caso di Anderson, ma con qualche differenza.

Per la prima volta affronta temi come l’immigrazione – il Lobby Boy arriva da un paesino dei Sudeti e viene più volte discriminato – e l’importanza di compiere scelte politiche. Il Grand Budapest Hotel altro non è che l’ultimo baluardo di un piccolo mondo antico, l’Europa mitteleuropea e la sua cultura, che si erge inutilmente per arginare l’avanzata del nuovo, il Nazismo e la sua violenza.

E’ anche la prima volta che nel cinema di Anderson manca il “nucleo famigliare“, anche se c’è la necessità di rimpiazzarlo. Il Lobby Boy, orfano, immigrato, figlio perduto, considera Monsieur Gustave una figura paterna da rispettare e imitare. Gustave ha la sua famiglia nell’Hotel, sì un edificio da gestire, ma anche il sistema affettivo di riferimento, con le sue gerarchie ed incomprensioni.

“Vedete, ci sono ancora deboli barlumi di civiltà lasciati
in questo mattatoio barbaro che una volta era conosciuto come umanità.
Infatti è quello che abbiamo a disposizione nel nostro modesto, umile, insignificante… Oh, fanculo!”

Nymphomaniac, il sesso tra vita e arte

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Qualche secondo di nero e poi, sulle note sparate a bomba di Führe Mich – in italiano Guidami – dei Rammstein, si apre il palcoscenico di Nymphomaniac, ultimo film di Lars Von Trier, ininterrottamente scandito dal contrasto tra calma apparente e caos dirompente.

Una donna è per terra, priva di sensi e zeppa di lividi. E’ Joe, la protagonista dell’opera che, nella voce e nel corpo di Charlotte Gainsbourg, si descrive così:

Forse la differenza tra me e le altre persone è che ho sempre chiesto di più al tramonto. I più spettacolari colori, quando il sole incontra l’orizzonte. Forse è questo il mio unico peccato“.

A salvarla è Seligman – dall’ebraico “Colui che è felice“- che non solo la accoglie in casa, ma si offre di ascoltare la sua storia, presentata in un susseguirsi di flashback – dove la Gainsbourg è sostituita dalla giovane e convincente Stacy Martin.

Un percorso di formazione, dai due ai cinquant’anni, scandito in capitoli, secondo una struttura che Von Trier ha usato in forma lieve anche in Melancholia e che ricorda, tra i tanti, il cinema di Quentin Tarantino. Otto capitoli introdotti da un titolo ed un’illustrazione ad hoc, ironica e divertente, che riecheggia lo stile di Wes Anderson.

Joe è una ninfomane ed è fiera di esserlo. Ha meno di dieci anni quando si strofina con un’amichetta sul pavimento del bagno di casa, ne ha pochi di più quando ha un orgasmo spontaneo. Cresce in fretta e conta le prime zompate, rigorosamente 3 + 5, di Jerome, fa a gara con l’amica B. a chi si fa più uomini in un viaggio in treno.
I giri di giostra non si fermano. Belli, brutti, alti, bassi, fisicati, non fisicati: l’importante è che siano uomini e abbiano un pene perfettamente funzionante.
Muore il padre, e Joe fa sesso all’obitorio. Ritrova Jerome, con lui ha un figlio, ma la fame non si placa, anzi deve spingersi verso nuove dimensioni: sotto con i negri e con il violento signor K, principe dell’arte del frustino.
L’età avanza, la vagina è consumata e pullulano le dermatiti sanguinanti proprio lì. Joe trova un lavoro che realizza al meglio la sua abilità: scavare nella sessualità degli uomini per scoprirne la personalità. Ritrova Jerome, ed è lui che la riempie di botte.

Fin qui niente di eccezionale. Alzi la mano la donna che non si ritrova in almeno una di queste azioni appena descritte. Non siate timide, e nemmeno scandalizzate: siamo nel 2014, il concetto di scandalo legato alla sessualità è morto da un pezzo.
Von Trier porta al cinema quello che si è abituati a vedere in un film porno, ha scritto qualcuno. Falso, il regista danese porta al cinema il sesso, usando certamente tecniche di ripresa usate nella pornografia, ma non c’è, in oltre quattro ore di film tra il Volume I e il Volume II una sola penetrazione in primo piano. Lo scopo non è quello di eccitare, ma mostrare le fasi e le conseguenze di un’ossessione che va anche a forgiare il pensiero di una persona. Dice Joe:

L’amore fa appello a istinti più bassi, avvolti nelle bugie.
Come si fa a dire sì quando intendi no e viceversa?

Puntiamo le luci sull’ascoltatore della storia. Seligman è decisamente il migliore confidente che si possa avere: ogni irrazionalità descritta da Joe viene razionalizzata secondo la conoscenza di questo anti sionista asessuato. Il suo primo e appassionato commento al racconto lo descrive metaforicamente con la pesca del pesce volante.
Poi, tutto è spiegato secondo i teoremi della matematica, della filosofia, della letteratura, della medicina, della musica, della religione, dell’iconografia e dell’arte, in qualsiasi forma.
La conoscenza di Seligman è talmente vasta che potrebbe conquistare lo spettatore molto più dei racconti di Joe. Supera qualsiasi preconcetto e/o pregiudizio ed amplifica la potenza delle idee. Passa, con una facilità estrema, dalla polifonia di Bach, alla contrapposizione tra Chiesa orientale / Chiesa della Gioia e Chiesa occidentale / Chiesa della Sofferenza, alla successione di Fibonacci, alle teorie freudiane sullo sviluppo della sessualità nel bambino, a Messalina e alla Grande Meretrice di Babilonia.

Il registro linguistico usato dai due interlocutori è aulico, quasi solenne. C’è totale rispetto dell’opinione convergente o divergente altrui. Il film è un inno al linguaggio. Un esempio? In chiusura di Nymphomaniac Volume I, il monologo della moglie abbandonata Uma Thurman tocca livelli di antologia, quasi fosse una Medea dei giorni nostri. “Le va bene se mostro ai bambini il letto della puttana?” dice, e poi si abbandona ad un urlo disperato.

Diamo un occhio anche ai tre aspetti negativi: a Nymphomaniac manca la bellezza oscura di Melancholia, la seconda opera della trilogia della depressione di Von Trier, ma ha dalla sua momenti di fisicità impressionante che vanno di pari passo con scelte musicali eclettiche.
Un riferimento alla pedofilia corre il rischio, elevatissimo, di essere mal interpretato dai benpensanti. E’ chiaro, il regista lancia la sua ennesima provocazione, ma è bene restarne illesi. Infine, c’è della disparità tra il Volume I, dedicato alla ricerca dell’equilibrio nella follia dell’ossessione, e l’ostentazione del Volume II, intriso di una violenza, a tratti gratuita.

Se siete persone libere da pregiudizi, allora siete pronte per questo film. In caso contrario, non perdete il vostro tempo. A Von Trier non piacerebbe.