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Elvis & Nixon

Elvis e Nixon
Il 21 dicembre 1970 Elvis Presley e Richard Nixon si incontrano alla Casa Bianca. Esiste, di quell’incontro, un solo documento ufficiale: una foto gelosamente custodita negli archivi di stato statunitensi. Quella foto è la fonte di ispirazione di Elvis & Nixon, terzo film di Liza Johnson, arrivato nelle sale italiane il 22 settembre 2016.

Un film che racconta di Elvis senza nessuna canzone di Elvis. Un film che racconta di Nixon senza mostrare le sfaccettature di quella che è stata definita presidenza imperiale.
Liza Johnson costruisce il suo film sulla recitazione e sulla riflessione congiunta tra la decadenza di un mito, che morirà nel 1977 tra i veleni dei barbiturici, e la farsa del potere di quel presidente che nel 1974 diede le dimissioni per lo scandalo Watergate.

Elvis è interpretato da Michael Shannon, che prende un forte e biascicato accento del Sud e costruisce un ritratto complesso e grottesco di mito consapevole di esserlo. Di fronte, il presidente di Kevin Spacey, ingobbito per l’occasione, che sfodera tutta la sua vena comica e cinica, trasformandosi in una macchietta della più perfetta tradizione dell’avanspettacolo.

Nonostante il contesto sia interessante e ben definito – la ricostruzione si affida agli appunti del consigliere di Nixon Egil ‘Bud’ Krogh e al libro di memorie di Jerry Schilling Me and a guy named Elvis – la regista non gioca la carta della suggestione storica e ogni riferimento socio-politico è alleggerito da sfumature ironiche. Elvis & Nixon è un esperimento perfettamente riuscito di intrattenimento, sorretto dalla performance fisica dei due attori, capace di scoprire vezzi e ossessioni di due icone molto più simili di quanto ci si aspetterebbe.

Ma la forza della pellicola sta da un’altra parte. I primi 50 minuti ci aiutano a conoscere la psicologia dei personaggi, in modo da arrivare all’ultima scena, quella dell’incontro nello Studio Ovale, preparati. Sappiamo esattamente cosa Nixon non sopporti e chi pensa di trovarsi davanti, cosa voglia Elvis e quanto sia imprevedibile. Possiamo seguire gli eventi da due punti di vista diversi e goderci quella che è una perfetta sfida di dialettica. Ed ecco che Elvis & Nixon è una chicca cinematografica da vedere e rivedere.

Tangerine

Tangerine
Tangerine è il colore del cielo della Città degli Angeli al tramonto. Fa venire voglia di sognare, di pensare a cose belle, di sperare in un futuro migliore, fa anche avere l’illusione di poter essere migliori. E’ un po’ quello che vorrebbe Sin Dee Rella, appena uscita dal carcere dopo 28 giorni e che, come prima cosa, va alla ricerca del suo fidanzato. Sembra quasi una fiaba, che rimanda a Cenerentola, vista l’assonanza dei nomi.

Ma le cose non sono così semplici. Sin Dee Rella è una prostituta transessuale che sta con un pappone che l’ha tradita con una donna ‘vera’. E viene a scoprirlo dalla sua migliore amica Alexandra, anche lei prostituta transessuale, in una tavola calda della cosiddetta Tinseltown, la zona celebre per il Sunset Boulevard ed i vari studi cinematografici. Immediata la caccia al fedifrago e all’amante.

Tangerine, l’ultimo film del regista indie Sean Baker, parte proprio da qui. Da un viaggio, ben poco turistico, ma molto realistico e ben disegnato, in una Los Angeles alla vigilia di Natale e che di natalizio non ha nulla – non ci sono addobbi, luci, Babbi Natale, alberelli, neve, solo un gran sole che regala sfumature color mandarino – fatto di drogati, papponi, faccendieri da quattro soldi, prostitute e trans che popolano i sobborghi tutt’altro che patinati della megalopoli californiana.

Un viaggio tra lunghe camminate, autobus e metropolitane ripreso interamente con tre iPhone 5 e montaggio eseguito con semplici programmi per PC che hanno permesso al regista di annullare quasi le spese per l’aspetto tecnologico. Chiaramente, le immagini non sono quelle patinate che si vedono nei film ‘tradizionali’, ma la bravura di Baker sta anche nell’aver saputo dare al suo film una certa eleganza formale sfruttando al meglio una Los Angeles che è capace anche di essere coloratissima e luminosa.

La scelta di due interpreti davvero transessuali rende ancora più reale la storia di Tangerine. Mya Taylor e Kitana Kiki Rodriguez, alla loro prima prova da attrici, danno dignità alla T della sigla LGBTQIA.
Ma il vero punto di forza del film è la colonna sonora, forte, urbana, che entra sottopelle e diventa parte dello spettatore, accostandosi in modo perfetto alla regia nervosa e sempre in movimento.

Gone Girl – L’amore bugiardo

Amore_Bugiardo
Il titolo L’amore bugiardo rimanda subito a qualche thriller amoroso di cui è chiaro e intuibile l’intreccio dopo il primo incontro romantico tra lui e lei. Invece, l’ultima fatica di David Fincher, tratto dal libro di Flynn Gillian, celebra un nuovo capitolo della crisi della società americana, disillusa dalla recessione economica, dalla perdita del lavoro e dalla fine del mito della felicità.

Gone Girl – L’amore bugiardo è un noir post modernista che sposa bene e amplia un filone iniziato dallo stesso regista con il precedente The Social Network. Quel filone che spiega come noi impieghiamo il nostro tempo passato, presente e futuro a costruire un’immagine pubblica conveniente. La chiave per la sua riuscita realizzazione è la menzogna, la bugia, la non verità.

E’ splendido, letto in quest’ottica, il primo incontro tra Nick ed Amy, quel giocare subito con le bugie, 2 minuti che poi in maniera molto più dirompente rappresenteranno i successivi 5 anni. Amy e Nick fingono di non vedere che il loro piacere si realizza nello sguardo di chi li osserva, figuranti frustrati dalla loro apparente felicità, ma ne sono perfettamente consapevoli.

Nei suoi 149 minuti, il racconto si fa sempre più labirintico: c’è un accenno alla potenza dei media in fatti di cronaca nera provinciale; c’è l’intervento della legge americana, che compie indagini disordinate e confuse, e c’è la messa in scena del sentimento di ipocrisia che tiene vivo il matrimonio. Che si tratti di necessità sessuali o bisogno di sicurezza patrimoniale, gli sposi sono legati a doppio filo. Alla fine, il matrimonio di Nick e Amy si sfalda completamente, dopo un accumulo di frustrazioni e antipatie reciproche, fino al desiderio di annientare l’altro.

Non c’è un solo momento in cui il livello di tensione insito nella pellicola rischia di affievolirsi. Grazie a due fattori umani. Intanto, la coppia Trent Reznor e Atticus Ross, alla loro terza colonna sonora per Fincher, asseconda ormai alla perfezione le idee del regista, creando un climax emotivo da cui è difficile non farsi coinvolgere. E, poi, Rosamund Pike supera davvero se stessa. Bionda e algida, è perfettamente in grado di modificarsi nel look e nell’espressività, di scena in scena, in onore all’inafferrabilità della personalità di Amy.

E se, invece, molto più semplicemente, Amy soffrisse di un grave disturbo psicologico che la porta a dominare gli altri? Il finale di Gone Girl – L’amore bugiardo lascia questo e tanti altri quesiti in sospeso.

Perez

Perez

Le prime immagini di Perez sono quelle del Centro Direzionale di Napoli, un aggregato di grattacieli progettato dall’architetto giapponese Kenzo Tange. Una moltitudine di elementi architettonici in mezzo alla quale si muove una solitudine umana. E’ quella di Demetrio Perez, un uomo che si trascina nella vita, lasciando che siano gli altri a scegliere per lui. Una rassegnazione, la sua, che si esplicita nella frase d’apertura del film: “Io lo vedevo il muro davanti a me, eppure continuavo ad andargli incontro…

Da tempo frenato dalla paura di osare, Perez si è sempre nascosto dietro un’evidente mediocrità, da lui assunta ad efficace riparo dall’infelicità. Senza più ideali, né passioni, né ambizioni, il personaggio di Luca Zingaretti, non vive una vita degna di essere considerata tale. Separato, vive con la figlia Tea, su cui non ha nessuna autorità, e odia il suo lavoro.

L’elemento di rottura che introduce il regista Edoardo De Angelis, qui alla seconda fatica dopo l’opera prima Mozzarella Stories, è Luca Buglione, capo camorrista collaboratore di giustizia alle sue regole, che chiede proprio l’aiuto di Perez. Non di certo perché sia un principe del Foro, ma perché è un uomo disperato, esattamente come lui. Buglione conosce il punto debole di Perez e lo colpisce: è la relazione tra la figlia Tea e un astro nascente della camorra, Francesco CorvinoIn cambio dell’aiuto a concludere un piano criminale, l’avvocato può liberarsi una volta per tutte della scomoda presenza di Corvino. 

Il film incalza seguendo un concetto chiave: infrangere la legge. E Perez ha due fronti nemici su cui agire contro le regole: da una parte i camorristi, che si insediano a casa sua sequestrandolo con la figlia, dall’altra i giudici e i poliziotti che mal vedono la sua facciata borghese. Gli attori chiave sono quattro. Il vecchio capo camorra interpretato dal duro Massimiliano Gallo e il giovane che ha il volto di Marco D’Amore, rimasto forse un po’ invischiato nel ruolo di malavitoso dopo il boom di Gomorra – La serie. Tra di loro, il protagonista di Zingaretti prova a tirarsi fuori dal suo fallimento personale e dalla sua disperata solitudine. Attorno a loro, l’emergente Simona Tabasco, classe 1994, donna che salva il padre che vorrebbe salvarla. 

Fatta eccezione per D’Amore, le prove recitative del cast sono convincenti. Nel caso di Zingaretti, poi, personaggio e contesto sono un tutt’uno misterioso, malvagio e allo stesso tempo affascinante. Certo, Perez non aggiunge nulla di più al filone cinematografico dedicato alla camorra, ma fa leva su uno stato psicologico che troppo spesso si dimentica: “Io lo vedevo il muro davanti a me, eppure continuavo ad andargli incontro…

 

American Sniper

American_Sniper
Ci sono tre tipi di persone: le pecore, i lupi e i cani pastore.
Ci sono persone che credono che il male non esista. E quando bussa alla loro porta, hanno paura e non sanno cosa fare. Queste sono le pecore.
In questa casa non si crescono pecore e se diventerete dei lupi giuro che farete i conti con me.

E’ la lezione che un padre dà ai suoi figli, durante un pranzo della domenica. Qualche anno dopo, il figlio maggiore diventa La Leggenda: è Chris Kyle, ad oggi il cecchino più micidiale nella storia dell’esercito americano. Il suo taccuino registra oltre 160 persone uccise durante la guerra in Iraq, anche se lui ne rivendica quasi il doppio. Si ritira dai Navy Seals per dedicarsi alla famiglia, scrive un’autobiografia e muore, assassinato da un reduce di guerra come lui.

La sua storia di straordinario uomo medio è stata portata al cinema da Clint Eastwood, regista del film che porta lo stesso titolo del libro di Kyle, American Sniper. Suddiviso in un prologo, quattro atti corrispondenti alle quattro missioni in Iraq di Kyle sempre volontario e un epilogo, il regista dagli occhi di ghiaccio narra le gesta dell’eroe che non tentenna mai. Forte del suo credo, fondato su tre pilastri – Dio, Patria e Famiglia – vive con lo scopo di salvare la vita dei propri compagni in combattimento.

Certo, è evidente che per Eastwood quest’uomo è un eroe nazionale e il film che gli costruisce attorno lo celebra. Ma, prima di accusare (nuovamente) il regista di essere un conservatore guerrafondaio, bisogna notare come in questa pellicola, forse di più che nel dittico Flags of our Fathers e Lettere da Iwo Jima, dimostra di comprendere a fondo la fragilità umana.
Identifica la telecamera con il disfacimento psicologico e morale in corso del corpo/macchina da guerra di Chris e, più in esteso, del dispositivo militare americano. Se Kyle appare inizialmente invincibile, in un secondo momento la sua mente e il suo corpo devono fare i conti con la distonia percettiva e la schizofrenia di chi è coinvolto in ogni sorta di conflitto.

Per il resto, American Sniper ha un ritmo lento, ma inarrestabile, costruito come un western, con duello a distanza tra due pistoleri nemici giurati, l’attacco al fortino e l’arrivo della cavalleria. Narrazione classica e potenti accelerazioni nelle scene d’azione e violenza. Lode al protagonista, Bradley Cooper, che ha appesantito il suo aspetto fisico per sposare la parte, e ci riesce alla perfezione.

Guardare un film, anche quello che si rivela essere il più insipido mai realizzato, significa avere la mente libera da qualsiasi pregiudizio, pronta ad analizzare modi differenti di vedere le cose rispetto ai propri. Ecco, diciamo che American Sniper non è adatto ad alcune categorie di persone: a chi non ama la propaganda, a chi detesta le americanate, a chi rifugge i western e i film di guerra, a chi non concepisce il concetto di eroe nazionale. Ma fatelo uno sforzo. 

Big Eyes by Tim Burton


Big_Eyes

“Gli anni ’50 erano un’epoca meravigliosa se eri un uomo”. Questa battuta dà avvio a Big Eyes, il film che segna il ritorno al cinema di Tim Burton ma nella forma di un biopic sulla vita dell’artista tuttora vivente Margaret Keane e non nelle splendide cornici fiabesche cui ci ha abituati in tanti anni di cinema visionario.

Non ci sono tinte gotiche in questo spaccato biografico – è la seconda prova di genere per Burton, dopo Ed Wood – che porta alla luce la storia di un amore che si rivela essere un plagio artistico. Quando Margaret incontra Walter Keane è una giovane pittrice di volti infantili, caratterizzati da enormi occhioni malinconici, che in epoca di astrattismo e pop art avrebbero ottenuto un sorprendente successo di mercato e il disprezzo palese della critica.
I due si conoscono, si piacciono, si sposano e lui comprende il suo talento e lo sfrutta. Lo sviscera, lo commercializza, lo svaluta e se ne prende il merito: lei realizza opere d’arte per un valore di milioni di dollari incidendo, in calce, le iniziali del marito.

Margaret è così brava a vedere il mondo attraverso gli occhi che dipinge, ma non è altrettanto scaltra a capire che Walter vuole solo rubarle successo e fama per vivere una vita come lui avrebbe voluto. In una grande villa stile hollywoodiano piena di comfort, certo, ma anche di grande solitudine e disprezzo. E’ l’amore che porta Margaret a coprire una bugia che in pochissimo tempo diventa totalmente ingestibile e la allontana dall’unica che la conosce fino in fondo, la figlia Jane.

Burton presenta una storytelling che include i temi del femminismo e del matrimonio, nei tempi dei presidenti Kennedy e Johnson. Ma è la concezione dell’arte e la sua mercificazione che domina la pellicola, l’elogio della bugia, prima conseguenza del capitalismo. E sullo sfondo, da contrasto, ecco le solari location di San Francisco e delle Hawaii.

Fino a qui sembra che Big Eyes sia un film strepitoso. Non è esattamente così. Di Burton va certamente apprezzato il radicale cambio di rotta: dopo vent’anni filma una biografia senza la certezza di avere i suoi attori feticci Johnny Depp – Helena Bonham Carter ed una enorme produzione alle spalle.
Il cineasta californiano commette, però, due errori: mischia troppi generi senza la giusta logica – tanto biopic, commedia qua e là, un pizzico di thriller, un altro po’ di satira – e conclude con un finale freddo, frettoloso e incolore che non rende giustizia allo spessore della storia raccontata. A Burton, dunque, manca il guizzo che lo ha reso geniale in tante altre produzioni. 

Se tra le spettatrici di Big Eyes qualcuna fosse nelle stesse condizioni di Margaret, si deve sperare che abbia trovato la forza di ribellarsi ad una società che oggi tocca apici di maschilismo, consumismo e conformismo nelle idee.
Gli strascichi del capitalismo non sono morti, anzi. 

The Drop – Chi è senza colpa

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Che quella belga sia una terra di registi contemporanei molto validi è cosa confermata dal Violet di Bas Devos, dall’Alabama Monroe di Felix Van Groeningen, da Il concerto di Radu Mihaileanu e dal Bullhead di Michaël R. Roskam.

Roskam appunto. The Drop – Chi è senza colpa è la sua ultima fatica ed è stato presentato al Toronto International Film Festival, quindi riproposto in anteprima italiana al Torino Film Festival 2014 nella sezione Festa Mobile.

Ci sono almeno tre buoni motivi per vederlo, estrosa e creativa terra natia a parte.
Uno, è l’ultimo film in cui recita James Gandolfini, l’indimenticabile volto di Tony Soprano nell’omonima serie, scomparso un anno fa. Due, lo sceneggiatore è lo scrittore Dennis Lehane che ha portato al cinema il suo racconto breve Animal Rescue, già autore dei romanzi da cui sono tratte le atmosfere cupe di Mystic River e Shutter Island. Tre, per 107 minuti riesce a calamitare l’attenzione in maniera costante e assoluta.

Nella Brooklyn del film il drop è l’atto di lasciare i soldi ricavati dall’attività criminale, pronti al riciclo, nei bar posseduti dalla mafia cecena che controlla la zona. Sullo sfondo un ambiente malavitoso, Cousin Marv’s è il bar dove lavorano due cugini: il mite Bob Saginowski, che cerca di fare solo il suo lavoro, e il rude Marv, che il più delle volte si fa prendere dall’avidità.

Due personaggi fortemente caratterizzati e per niente incastrati all’interno di aridi stereotipi affidati a due attori di spessore. Il ruolo di Marv è cucito addosso a James Gandolfini, la sua fisicità e la sua mimica facciale lasciano, per l’ultima volta, un segno indelebile. Il criminale è il ruolo con cui saluta il cinema e il suo pubblico e, certamente, non delude le aspettative.

Ma il vero protagonista qui è Tom Hardy, che si muove sul filo del rasoio tra le definizioni di eroe ed antieroe, sfugge alle etichette e convoglia le emozioni del pubblico. L’attore – che in The Dark Knight Rises di Christopher Nolan ha recitato praticamente solo con gli occhi – dimostra un’abilità eccezionale nella trasformazione da giovane impacciato a qualcosa di molto più sfaccettato. Il suo Bob Saginowski ricorda il Jimmy Markum di Mystic River: entrambi ex piccoli criminali, vorrebbero cambiare vita.  Ma gli eventi li riportano alla condizione di partenza. Succede qualcosa di buono, ma il male è comunque lì dietro l’angolo e ci si chiede se e quanto sia giusto fare cose cattive per fini buoni.

Bob va tutti i giorni in chiesa e altrettanto quotidianamente si interroga sul difficile rapporto tra bene e male. The Drop però non fa leva su grossi conflitti morali, quanto sulla loro insinuazione. La criminalità e i guai fanno parte della vita e come tali sono accettati in un’atmosfera dove niente è affermato dai dialoghi e dove tutto è detto tra le righe. Il senso non è già dato, perché Roskam chiede allo spettatore di trovarlo dietro dietro ai bluff e ai personaggi ambigui. In fondo, Chi è senza colpa?

Winter Sleep – Il regno d’inverno

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In un villaggio arroccato nell’Anatolia centrale, vive Aydin, un ex attore che gestisce l’Hotel Othello e ha un sogno nel cassetto: scrivere un libro sulla storia del teatro turco. Si comporta come un reuccio nel suo piccolo paradiso, ma deve fare i conti con la vita di tutti i giorni, fatta soprattutto di discussioni con la sorella Necla e con la giovane e bellissima moglie Nihal. Una realtà che non si può evitare, esattamente come l’inverno e il conseguente carico di neve.

Winter Sleep – Il regno d’inverno è il film di Nuri Bilge Ceylan che ha vinto la Palma d’Oro a Cannes 2014 con le sue tre ore e quindici minuti di paesaggi incontaminati, di dialoghi densi e di emozioni che si riflettono negli spazi in cui si muovono gli attori.
Un’opera grandiosa, un poema che richiama Shakespeare – dal nome dell’hotel al manifesto di un Antonio e Cleopatra fino a una diretta citazione – e Cechov – almeno nella struttura letteraria del film, desunta da tre delle sue storie brevi.

Mentre incalza la colonna sonora affidata all’Andantino della Sonata 20 di Schubert, va in scena, tra ironia e incalzanti dialoghi, il dramma tragico e personale di Aydin, che pure è un personaggio affascinante nonostante il cinismo e l’ambizione. Grande conversatore, è capace di battaglie dialettiche con la sorella che affrontano i temi più disparati: dal rapporto uomo/donna alla religione, dalla morale all’etica, dalla cultura alla storia, dall’Uomo all’Io. In ogni confronto, sembrano nascondersi gli albori di un rinnovamento, l’inizio di nuove traiettorie. Invece, il cambiamento è solo ipotizzato, mai realizzato.

E’ un cinema, quello del regista turco di C’era una volta in Anatolia, che non concede nulla allo spettacolo e che in quest’occasione chiede allo spettatore uno sforzo sovrumano nella comprensione dei dialoghi, nel passaggio da un campo lunghissimo all’altro in ambienti ora paesaggistici ora claustrofobici, nella lotta contro la noia e nella caratterizzazione ricchissima di ogni singolo stato d’animo.

I rari momenti in cui si esce da questo enorme muro di parole è quando l’immagine si apre ai gesti e alle azioni dei personaggi marginali – come il ragazzino che lancia un sasso sul vetro della macchina di Aydin – che rompono l’unità impenetrabile del personaggio principale che ostenta una semplicità rinfacciata sempre. Un uomo che potrebbe essere un tutt’uno con il paesaggio fuori dalla sua finestra, ma che brama qualcosa di non meglio definito. 

Winter Sleep – Il regno d’inverno rischia di far addormentare chi ama i cinepanettoni o i fantasy. Chi, ancora, ha la pazienza di entrare in una storia, fare un viaggio in una terra bellissima e partecipare al flusso di coscienza di un uomo, non può perderlo. 

Luc Besson presenta Lucy

Lucy
Nel 1997 il francese Luc Besson realizza Il Quinto Elemento, una delle opere più innovative di fantascienza: recupera i modelli dei classici e li rielabora completamente, creando qualcosa di nuovo ed originale per il cinema che convince critica e botteghino.

Nel 2014 il regista ritorna al genere con Lucy, distribuito da Universal: di dollari ne incassa oltre 354 milioni, grazie ad una strategia di marketing accuratamente studiata e ad un cast trascinato dalla bomba sexy Scarlett Johansson e dall’uomo certezza Morgan Freeman. Obiettivo botteghino raggiunto, quindi, ma l’opera non convince fino in fondo.

Sapendo che gli umani utilizzano solo il 10-15% delle proprie facoltà intellettive, cosa succederebbe se ne sfruttassero il 100%? Besson ha una tesi e la dimostra affidandosi agli effetti di una droga in polvere: tipo cocaina, colore blu e potenza disarmante. Una droga che è molto più che uno sballo e che stravolge l’esistenza di Lucy, una studentessa che studia a Taipei e che suo malgrado sperimenta gli effetti della polvere blu. 

L’inizio della pellicola spiazza: sembra di essere in un mondo a tre dimensioni. Da una parte c’è Lucy che entra in un hotel lussuoso, incontra brutti ceffi cinesi e ne esce trasformata in un cyborg da guerra. Dall’altra, il professor Samuel Morgan, che insegna biologia all’Università di Parigi tiene una lezione sullo sfruttamento delle capacità cognitive dell’uomo. A fasi alterne, passano immagini prese dai documentari della National Geographic, riguardanti l’atavica lotta tra prede e predatori.

Scarlett Johansson è davanti alla macchina da presa, per fortuna. Besson gioca con la sensualità e la bravura della sua attrice e, infatti, Lucy non ha nulla da invidiare alla Milla Jovovich de Il quinto elemento. Anzi ricorda molto Nikita, ad oggi l’opera migliore di Besson, anche quella alle prese con una ragazza di strada che diventa una donna letale.
Quando la droga comincia a fare effetto, Lucy perde gradualmente la capacità di provare sentimenti e di sentire il dolore. Diventa inespressiva e immune alle emozioni. E anche lo spettatore fa sempre più fatica a provare empatia nei suoi confronti. 

Per tutto il resto c’è la fantascienza. Il regista francese, in un’ora e mezza di pellicola sci-fi, sfodera parecchie scelte ridicole che giustifica con quel vestito fantascientifico in cui tutto o quasi è permesso. Almeno in teoria, perché poi nella pratica il film scivola più e più volte, pur garantendo un certo spettacolo grazie a bangbang, inseguimenti d’auto per Rue de Rivoli, omicidi e special effects che fanno di Lucy il film di Besson più ricco di effetti speciali e visivi.

La pellicola fa autogol nel momento stesso in cui prova a darsi una credibilità scientifica, a tratti metafisica, andando ben oltre i propri limiti di scrittura. Poi, certo, bisogna riconoscere che Besson quando promuove figure di eroine forti e guerriere non sbaglia il colpo. E, infatti, il pubblico lo ripaga.

Invece, si dovrebbe riflettere, sfruttando proprio quel 10% di capacità intellettive, sulla frase iniziale del film: “La vita ci è stata donata un miliardo di anni fa. Cosa ne abbiamo fatto?

Il Capitale Umano

Il-capitale-umano

Una delle eredità, tra le peggiori, lasciate dal capitalismo è la nascita del binomio capitale umano, inteso come il valore economico di ogni singolo individuo calcolato in base alla sua potenziale produttività. In parole povere, questo concetto distrugge le ragioni della convivenza umana. All’individuo della società post-moderna restano l’apparenza, la quotazione di se stessi, la paura di non essere nessuno, di non farcela e di non valere niente.

La generazione che ne esce è ben vestita, organizza party pseudo-benefici, gioca a tennis tutti i venerdì mattina, ha conference call ogni giorno, naviga nell’oro – ma solo per poco perché la crisi non risparmia nessuno. Uomini e donne complici del disastro di una nazione, l’Italia. Questa generazione è la protagonista de Il Capitale Umano e non è certo un caso se il film che Paolo Virzì ha realizzato come adattamento dell’omonimo libro dell’inglese Stephen Amidon si conclude con: “Avete scommesso sulla rovina di questo paese. E avete vinto“.

Se Virzì è noto al cinema italiano per esplorare il buio che si nasconde dietro un contesto solare, nella sua ultima fatica compie esattamente l’opposto. Già aveva virato su toni amari con Tutta la vita davanti, commedia grottesca e apocalittica sul mondo del lavoro, ma con Il Capitale Umano inquadra e centra perfettamente l’obiettivo.
Dunque, il regista livornese cambia registro e toni, pur restando – e non vogliamo che faccia diversamente – fedele alla sua capacità di raccontare le emozioni con forte realismo. Il suo film è una storia corale in cui la ricerca del colpevole è solo un pretesto per analizzare da vicino due famiglie, così diverse per estrazione sociale, abitudini e stili di vita, e così simili nelle loro grette ambizioni e grandi miserie.

La sceneggiatura ha come punto centrale il concetto di responsabilità: quando le cose vanno male – e ne Il Capitale Umano accade spesso – chi deve assumersi le proprie colpe? I candidati sono tanti: un padre-padrone che ha educato il figlio secondo la mera logica della competizione, un’ex attrice che ha sacrificato i propri sogni in nome di una vita tranquilla da mantenuta, uno zio che passa le giornate a fumare marijuana anziché occuparsi del nipote in affido, un piccolo imprenditore che smette di fare la formica per diventare cicala senza logica. Ma alla fine nessuno di loro viene punito, perché ognuno di questi personaggi scarica le sue responsabilità sugli altri. A farne le spese è un povero cristo che torna in bicicletta dal lavoro al cantiere e viene investito da un altro povero diavolo in cura da una psicologa infantile. Sono loro il capitale umano del titolo, loro si sacrificano per tutti.

Diviso in capitoli – che sono i punti di vista dei protagonisti – il film è un noir che riflette, finalmente, con quel cinismo e quella crudezza estrema da tempo assenti nel cinema italiano, su una grande verità: i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri diventano sempre più poveri. I ricchi sono marci dentro, i poveri sono la sintesi perfetta di intelligenza e imbecillità. Non si salva nessuno, tutti fingono di non vedere la corruzione, si voltano dall’altra parte o ne traggono vantaggio.

Non è più tempo di scherzare – è questa, in fondo, l’ammonizione di Virzì al cinema italiano fatto di commediole amorose e cinepanettoni – perché la morale italiana è confusa e riflette un paese a cui sono crollate le fondamenta.

I personaggi, che si muovono in un inventato paese della Brianza, sono impersonati da attori strepitosi, che sfruttano soprattutto la loro formazione teatrale. Il mondo degli adulti è composto dagli uomini Fabrizio Gifuni e Fabrizio Bentivoglio e dalle donne Valeria Golino e Valeria Bruni Tedeschi. E’ proprio quest’ultima a regalare l’interpretazione più vibrante, intensa, goffa e anche un po’ patetica.
Il mondo dei giovani vede i volti di Guglielmo Pinelli e dei bravissimi Matilde Gioli, ex campionessa di nuoto sincronizzato, e Giovanni Anzaldo, visto anche in Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana.

Il Capitale Umano, già vincitore del David di Donatello come miglior film, rappresenta l’Italia nella selezione per il miglior film straniero agli Oscar 2015. Non resta che fare a Virzì un grosso in bocca al lupo: la sua è, finalmente, un’ottima prova registica italiana, come non se ne vedevano da tempo.