emmanuelle riva

Hiroshima mon Amour

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Anno 1959: il 37enne Alain Resnais esordisce al cinema con quello che è tuttora riconosciuto come il capolavoro del cinema francese e mondiale, Hiroshima mon Amour.

Anno 2014: il 28 aprile, a due mesi dalla morte del regista e teorico del cinema, il suo film esce in 70 sale italiane – e la speranza è che tanti abbiano le bon sens di andarlo a vedere – nella versione restaurata 4K dalla Cineteca di Bologna, con alcune scene inedite in Italia.

E’ l’occasione, e ce ne dovrebbero essere più spesso, per valutare e rivalutare un’opera d’arte fondamentale per il cinema contemporaneo, rivoluzionaria ieri come oggi, capace di scatenare spunti di riflessione validi per il passato, per il presente e per il futuro. Perché, come insegna, “tutto si ripeterà“.

Struggente e delicato, Hiroshima mon Amour si apre con l’immagine dei corpi nudi di due amanti, senza nome, sui quali la cinepresa indaga ogni singolo dettaglio. Un’analisi della pelle che rimanda immediatamente alle immagini successive: quelle dei corpi e delle pelli martoriate, straziate e dilaniate dei sopravvissuti al disastro atomico.

Immagini – quelle dell’ospedale, del Museo della Pace di Kenzo Tange, della città ripresa dall’alto o ad altezza d’uomo – che sono commentate, secondo un minuzioso esercizio di letteratura redatto dalla sceneggiatrice Marguerite Duras, dalla protagonista del film, anche lei superstite di un dramma tutto europeo.

Proprio su Emmanuelle Riva, Resnais compie un lavoro per mostrare il funzionamento della memoria, attraverso la progressiva ricostruzione cronologica della sua vicenda giovanile. Ricostruisce il passato, de-costruendo il presente: i flashback di Nevers, il suo luogo natio, irrompono inaspettatamente e prepotentemente nel presente di Hiroshima. Due paesi mostrati al pubblico dalla bellissima fotografia in bianco e nero di Sacha Vierny.

Lei è sul posto perché deve recitare in un film per la pace, lui è un architetto: scoppia una passione viscerale, consumata in poco più di una notte, dove non conta il nome, ma solo le emozioni e le esperienze vissute. Un legame alimentato dall’empatia, dalla consapevolezza che non può durare, da domande mai retoriche e da risposte che prediligono la ratio all’istinto.

Accanto all’indagine, scrupolosa e innovativa negli anni Sessanta, dei concetti di tempo e memoria, Resnais aggiunge un raffinato lavoro di montaggio che gli consente di descrivere il caos di esistenze individuali – fatte di immagini contraddittorie, frammenti di ricordi, avvenimenti vissuti o immaginati – che sono incluse in una drammatica storia universale.

La perfezione di Hiroshima mon Amour si sente anche nelle musiche di Giovanni Fusco e di Georges Delerue. Per un terzo del film, ogni tema narrativo è identificato da una musica ben precisa. Successivamente la colonna sonora perde questa associazione univoca e segue il caos delle immagini. Si spoglia della funzione di definizione delle scene e acquista quella di collegamento tra situazioni narrative diverse.

 

L’Amour di Georges e Anne non ha confini

Amour

Noi facciamo ogni giorno i nostri esercizi di logopedia, spesso cantiamo anche insieme. Generalmente verso le 5 io mi sveglio, a quell’ora lei non dorme ancora. Cambiamo il pannolone, io le metto della crema per evitare le piaghe e verso le 7 cerco di convincerla a mangiare e bere. A volte ci riesco, a volte no. A volte racconta cose della sua infanzia, oppure chiama aiuto per ore ed ore.
E poi, di colpo, scoppia a ridere. O a piangere.
Niente di tutto questo merita di essere messo in mostra“.

Nel suo Amour, vincitore dell’Oscar come Miglior Film Straniero nel 2013, Michael Haneke mette in mostra proprio tutto questo. La nascita, l’evoluzione e il declino della malattia attraverso il corpo sempre più sofferente di Emmanuelle Riva, classe 1927.
Il coraggio, la dedizione e la solitudine di chi assiste il corpo malato tocca, invece, a Jean Luis Trintignant, classe 1930.

Autore di storie scioccanti e intrecci senza lieto fine, Haneke rientra nella categoria dei registi che “o si amano o si odiano”. Il suo, da Niente da nascondere a Il nastro bianco giusto per citare alcune opere, è un cinema estremo, che non ha paura di sviscerare la crudeltà umana, artificio usato per esprimere al meglio tutta la sua critica alla società contemporanea.

Attenzione, però. Diversamente dagli altri lungometraggi del regista austriaco, qui il filo conduttore non è un oggetto negativo, come la morte, sebbene Amour si apra con la scena di un corpo morto. E’ l’Amore, quello tenero e delicato che resiste al passare del tempo tra i due protagonisti, Georges e Anne, che dà titolo e corpo al film.

E di amore ce n’è tanto: i due sono entrambi insegnanti di musica in pensione, e la musica è la loro grande passione. Si punzecchiano con quella complicità che solo due innamorati puri sanno avere. Si confrontano con quella maturità che è simbolo di un rapporto mai logoro, intelligente, razionale, coltivato senza fretta e basato sulla stima reciproca. Si isolano dal resto della famiglia – dalla figlia Eve, interpretata da una misurata Isabelle Huppert – perché quella è la loro vita. E meritano di viverla secondo le loro regole. 

Serve coraggio, ad Anne, per chiedere a Georges di non lasciarla morire in un letto d’ospedale prima e di aiutarla a porre fine alla sua agonia poi. Serve altrettanto coraggio e dignità, un’altra delle parole chiave del film, a Georges per accompagnare la compagna – che diventa sempre più una bambina indifesa – verso l’epilogo.
Prima con dolcezza, quella che non prevede cateteri, flebo, corse folli in ospedali, esami invasivi e operazioni rischiose. Poi, con la forza di un cuscino schiacciato su un flebile respiro. E’ l’eutanasia la conclusione naturale della storia. Un atto che, nelle intenzioni del regista, non va giudicato, né capito. 

Haneke realizza la tragedia di Amour rispettando le tre unità aristoteliche. Unità di azione: come si affronta una malattia. Unità di luogo: la casa tipicamente borghese di Georges e Anne, una sorta di bunker inaccessibile a chiunque. Il regista muove la sua macchina con angoli di ripresa strettissimi, proprio in quell’appartamento, che denotano sacrificio, angoscia, claustrofobia, soffocamento e disperazione. Unità di tempo: dalla comparsa dell’ictus alla morte di Anne passa, tutt’al più, qualche settimana. I movimenti appesantiti della coppia Trintignant – Riva e il montaggio lento di Haneke creano, a mo’ di ossimoro, un’accelerazione del dramma interiore che dai personaggi si trasmette allo spettatore.

Una tragedia, quella di Amour, che fa uso del linguaggio simbolico. Il piccione che vaga nella casa dei protagonisti, è l’evidente metafora dell’anima prigioniera nel labirinto della malattia. Come si può rendere libera quell’anima? Decidendo il suo destino di morte: “Non è stato difficile, ti ho liberato” dice Georges all’ignaro volatile.

Amour è un ritratto asciutto del dolore umano. Non c’è compassione. Non ci sono lacrime. Non c’è consolazione. Non ci sono vie di mezzo. Non c’è scampo.