E’ il 1847 quando Charlotte Brontë – sotto lo pseudonimo di Currer Bell – dà alle stampe il romanzo che si rivelerà essere il suo capolavoro Jane Eyre. Un passo recita:
“Mi portavo sempre nel letto la bambola; gli esseri umani hanno bisogno di amare qualcosa
e, in mancanza di un oggetto più degno di tenerezza,
mi studiavo di provare piacere amando e vezzeggiando un piccolo idolo sbiadito,
malridotto come uno spaventapasseri“.
L’amore, inutile negarlo, è il motore del mondo. In qualità di esseri umani ne abbiamo follemente e disperatamente bisogno. Tutto può essere oggetto di amore, una bambola come nel caso di Jane, o un sistema operativo, come nel caso di Her, il film che ha portato Spike Jonze a vincere l’Oscar 2013 per la Migliore Sceneggiatura.
Her, che non va tradotto nella versione italiana Lei per non perderne il senso, vince e convince perché il suo particolarissimo regista rappresenta un sentimento così complesso e universale portando all’estremo la sensibilità e la profondità che lo caratterizzano.
Lo fa attraverso dialoghi fittissimi, che in sottofondo recano canzoni degli Arcade Fire, i primi piani di un Joaquin Phoenix mai così intenso – e sì che lo era stato in Quando l’amore brucia l’anima – e una scenografia visionaria e sapientemente studiata che passa, con quella facilità che non disturba lo spettatore, dai colori sgargianti delle metropoli – Los Angeles e Shangai – alle tinte pastello dei luoghi del protagonista – il suo loft e il suo ufficio.
Ma andiamo con ordine. Her ci proietta in un futuro non troppo lontano, dove gli uomini vivono in stretta simbiosi con computer e telefonini, immersi in una tecnologia che non si fa vedere – di fatto si percepisce solo attraverso l’uso degli auricolari – che è anche in grado di avere una coscienza propria.
Theodore, il protagonista, è un uomo scottato dalla fine del suo matrimonio con Catherine: i due sono cresciuti insieme e, una volta diventati grandi, non sono riusciti ad integrare i loro cambiamenti. Per questo, si rifugia in un mondo chiuso e popolato solo da avatar. Non è così difficile per lui accettare di sperimentare un nuovo e sofisticato sistema operativo.
Avviene quasi per caso l’incontro tra Theodore e il suo OS1, da lui rinominato Samantha. Un colpo di fulmine: la voce femminile, quella della bravissima Scarlett Johansson, è intelligente, autoironica, sensuale, empatica e trasmette una personalità in evoluzione.
Un incontro che diventa l’inizio di un doppio percorso di formazione.
Da semplice attrazione per “Qualcuno che ama così tanto la vita” – questo dice Theodore di Samantha – i due iniziano una relazione vera e propria. Insieme scrivono lettere, vanno in spiaggia, si divertono al luna park, girano per le Boulevard e le Street di Los Angeles. Lei lo segue e guarda il mondo dal device che spunta dal taschino della camicia di Theodore.
Si ascoltano, si confidano, condividono esperienze in un crescendo di emozioni, fanno sesso, litigano, fanno pace, progettano e si amano. Cosa c’è di vero? Tutto. E’ una relazione pura e incontaminata. Nulla è assurdo: il loro amore sul filo della voce è dannatamente coinvolgente. Jonze riesce così bene in questa operazione che non permette al pubblico di giudicare Theodore che, in fondo, è tutti noi.
Her mette in scena una società evitante. La regola è: tenere i sentimenti a debita distanza, perché sostenere il peso di vivere emozioni reali è troppo difficoltoso.
E’ più facile nascondersi dietro gli schermi di computer che diventano migliori amici virtuali. Quelli reali neanche riusciamo a guardarli in faccia: abbiamo paura. Coinvolgerci significa diventare vulnerabili e la post-moderna società del caos, della fretta e del multitasking non lascia spazio a cedimenti. E quel che è peggio, la società globale del rischio – ben studiata da Ulrich Beck – è lo scudo o meglio la scusa per non vedere noi stessi: non vogliamo conoscerci abbastanza.
Conoscersi: è quello che invece fanno Theodore e Samantha. Alla fine del film le loro strade si separano, ma ognuno porta con sé un bagaglio di esperienza fondamentale.
Lui riconosce le proprie emozioni e non ha più paura di esprimerle.
Lei conosce e supera i suoi limiti passando dall’essere un semplice sistema operativo ad un androide che si fa desiderare come le donne sanno fare: “Sono tua e non sono tua” dice a un Theodore che sente di perderla ogni minuto di più.
Spike Jonze spiega – in modo a volte ironico, a volte dolce, a volte grottesco e a volte paradossale – come facciano due cervelli a costruire quel piccolo miracolo chiamato amore. E l’alienazione tecnologica, altro grande tema del film, non è fine a se stessa: i palmari, gli auricolari, i sistemi operativi non sono guardati con disprezzo o con eccessivo ottimismo. Sono solo strumenti utili a far riflettere su affari ben più importanti: solitudine, amicizia, sessualità e nuove forme di relazione.
Due appunti. Primo: Her va visto nella versione originale. Non me ne voglia Micaela Ramazzotti, ma il suo mestiere è l’attrice, non la doppiatrice. Secondo: studiate ogni singolo tratto dei sorrisi di Joaquin Phoenix, vi verrà subito voglia di fare qualcosa di bello. Per voi.